mercoledì 13 luglio 2011
Il capitalismo ha bisogno di vacanze
Cronache dalla crisi
La risposta alla crisi è: competitività, quindi crescita, quindi posti di lavoro. Ma se tutta la crescita va a un piccola frangia di ricchi, a che scopo perseguire una crescita più elevata? La vera posta in gioco è di distribuire in modo diverso la ricchezza
Michel Husson*
I vecchi paesi capitalisti non vanno bene. È quanto mostrano le ultime previsioni dell'Onu (1): "Un rallentamento della crescita mondiale è atteso nel 2011 e nel 2012". Per i paesi sviluppati, il rapporto prevede una crescita dell'1,9% nel 2011, poi del 2,3% nel 2012. L'Unione europea (1,5 e 1,9) e il Giappone (1,1 e 1,4) farebbero ancora peggio, e gli Stati Uniti (2,2 e 2,8) un po' meglio.
La crescita mondiale sarebbe trascinata dai paesi in via di sviluppo, con il 6% nel 2011 e poi il 6,1% nel 2012. "La ripresa mondiale è stata frenata dalle economie sviluppate" dice il rapporto. Ci si può persino chiedere se ci sarebbe stata ripresa nei paesi sviluppati senza il dinamismo dei paesi emergenti.
La crescita misura almeno una cosa: la salute del capitalismo. Da questo punto di vista, l'avvenire sembra bloccato. Negli Stati Uniti, l'esaurimento degli effetti della politica monetaria di Quantitative Easing e il decollo del debito pubblico segnano i limiti di una politica di rilancio che non modifica le ineguaglianze allucinanti nella distribuzione dei redditi. La ripresa giapponese è stata ridotta a zero dalle conseguenze della catastrofe nucleare. Quanto all'Europa, continua a sbattere allegramente la testa contro il muro.
Il rapporto dell'Onu segnala con ragione che "l'austerità nelle politiche di bilancio rischierebbe di decelerare ancora di più la ripresa, l'aumento dell'instabilità dei tassi di cambio resta un rischio, come lo sarebbe pure un riequilibrio non coordinato dell'economia mondiale". Ben detto, ma le proposte avanzate sono di una vacuità quasi comica: ci si dice che bisognerebbe "coordinare i programmi di rilancio; la politica di bilancio deve essere rivista al fine di rafforzare il suo impatto sull'impiego". L'Onu auspica "una politica monetaria più efficace, un accesso più prevedibile per finanziare lo sviluppo, obiettivi più concreti ed effettivi per la coordinazione delle politiche internazionali".
In un simile contesto, il progetto di "demondializzazione" manca per lo meno di simmetria. La sua proposta centrale è quella di un protezionismo (europeo nel migliore dei casi, o limitato alla Francia) nei confronti delle importazioni provenienti dai paesi emergenti che non rispettano le norme sociali e ambientali. Ma né Montebourg, né Todd, né Sapir [esponenti politici ed economici francese che hanno teorizzato la cosiddetta “demondializzazione” NdR] parlano delle esportazioni. Orbene, oggi sono i paesi emergenti che trascinano la ripresa e la finanziano: "i trasferimenti finanziari netti dei paesi poveri verso i paesi ricchi sono sempre ancora in aumento", sottolinea l'Onu. Voler ridurre unilateralmente le importazioni non può portare a una configurazione stabile.
La demondializzazione così concepita deve venir distinta dall'altermondialismo su diversi aspetti, recentemente sintetizzati da Jean-Marie Harribey (2).
Innanzitutto, la mondializzazione non è l’unica causa della degradazione sociale. L'Onu prevede quindi il "persistere di una disoccupazione elevata nei paesi sviluppati". Con la crisi, il tasso di disoccupazione è passato dal 6% a quasi il 9% e dovrebbe restare al disopra dell' 8% nel 2012. Questa ripresa senza creazione di nuovi posti di lavoro (jobless recovery), che è quello che aspetta i vecchi paesi capitalisti, non è frutto della mondializzazione che procura loro degli sbocchi, ma dalla ferma volontà di ristabilire il tasso di profitto e la sacrosanta competitività.
Il tema della demondializzazione rimanda a una connessione che non funziona più: competitività, quindi crescita, quindi posti di lavoro. Ma se tutta la crescita va a un piccola frangia di ricchi, a che scopo perseguire una crescita più elevata? La vera posta in gioco è di distribuire in modo diverso la ricchezza, ma, di nuovo, è forse la mondializzazione che obbliga gli azionisti ad abbuffarsi mentre tutti gli altri devono stringere la cinghia?
Questo progetto mira in fondo a ritornare al capitalismo dei "Trenta gloriosi" tramite un protezionismo che permetta una reindustrializzazione fondata su una crescita produttivista. Significa volgere le spalle all'alternativa reale: il grande bivio verso un altro modello che combini la soddisfazione dei bisogni sociali e la lotta contro il riscaldamento climatico.
(1) Situation et perspectives de l'économie mondiale. Le citazioni provengono tutte dal riassunto in francese di questo Rapporto
(2) "Démondialisation ou altermondialisme?", 7 giugno 2011.
* articolo apparso sull’edizione estiva della rivista , francese Regards. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.
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