martedì 5 gennaio 2010

Il Craxi peggiore, quello politico


Nota quotidiana
In nome della modernizzazione sferra un attacco al movimento operaio, strumentalizza laicità e diritti civili, tiene testa agli Usa ma installa i missili Cruise. E cede al peggior conservatorismo italiano. Un esempio da dimenticare e che invece fa gola a poveri dirigenti Pd

di Salvatore Cannavò

Nella vicenda Craxi, riesplosa in questi giorni, c'è un'insidia maggiore del dedicargli una strada o una piazza a Milano: la presunta, buona, eredità politica di Craxi disgiunta dalle vicende giudiziarie. L'idea, cioè, che ci sia una politica craxiana che abbia fatto «bene» all'Italia come sostiene con comprensibile enfasi la figlia Stefania che si è spinta a scrivere sulla Stampa, replicando a un articolo giudicato infamante della figura del padre: «Il buon governo di Craxi ha portato fra i Grandi della Terra un Paese in ginocchio, è tuttora un esempio non imitato». La tesi non è solo appannaggio di una figura chiaramente di parte ma è difesa, ormai, da molteplici esponenti del Pd, forse anche dal presidente Napolitano. Oltre a Fassino, le ha dato piena legittimità un editoriale su Repubblica di Mario Pirani in cui è sottolineata la bontà della politica economica, sociale e internazionale di Bettino Craxi cui purtroppo seguì il malaffare e la corruzione. E non a caso, anche a sinistra, fa ancora brillare gli occhi il ricordo del caso Sigonella, dell'autonomia italiana rivendicata con forza agli occhi del gigante nordamericano.
Si tratta di giudizi in parte mitici e in parte dettati da una visione faziosa e generalmente classista, come quella che rivendica il taglio dei punti di scala mobile, primo atto antioperaio che cerca di chiudere i conti con gli anni 70. Ma anche le qualità di statista vanno reinterpretate alla luce dei fatti. Prendiamo come primo esempio di una discussione non fondata sui fatti, l'andamento del rapporto Debito pubblico/Pil in Italia durante la stagione craxiana.
Se nel dopoguerra il rapporto Debito/Pil comincia dal 45% e scende fino al 33% del 1964 (effetto del boom economico), la crisi del centrosinistra e i primi segnali di rallentamento del boom, producono un rialzo rapido che porta il debito al 55% del 1973 anno della crisi petrolifera. La crisi non produce rialzi consistenti anche per effetto dell'inflazione: si sale al 63% nel '78 per ridiscendere al 59% del 1980. E qui cominciano i guai. La sequenza è così impressionante che vale la pena riportarla in dettaglio: nel 1980 il rapporto è del 59%; nell'81 del 61%; nell'82 del 66, nel 1983 del 71 (è l'anno in cui Craxi diviene presidente del Consiglio); poi ancora, 77% nel 1984, 84% nel 1985, 88% nell'86, 92% nel 1987, 94% nell'88, 98% nell'89, 100% nel '90, 104% nel '91 e 111% nel '92. Poi salirà ancora, fino al 124% del 1995 ma qui Craxi non c'entra più nulla. Sarà il governo Prodi e del centrosinistra a riportalo al 109% nel 2001.
I dati sono implacabili. Certo, risentono della congiuntura internazionale. Gli Stati Uniti hanno avviato la fase ultraliberista di Reagan che poggerà all'inizio degli anni 80 sull'aumento dei tassi di interesse, deregolamentazione, liberalizzazione dei servizi pubblici, compressione dei salari. Con un colpo tremendo all'equilibrio dei paesi del Sud del mondo che d'ora in avanti verranno strozzati dal loro debito pubblico. A dispetto di una retorica che vuole l'Italia arrivare tra i grandi proprio negli anni 80 - e sul piano della crescita, della ricchezza prodotta, della forza del capitalismo nostrano, il dato è certamente vero - paradossalmente l'Italia vive negli anni 80 la stessa disavventura di gran parte dei paesi Terzi costretti a sottomettersi ai voleri degli Usa, del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Alla crescita del debito, infatti, si risponde con tassi di interesse elevati per cercare di non far uscire i capitali, svalutazione della moneta, liberalizzazione, privatizzazione, riduzione dei salari.
Il quadro complessivo in cui collocare la politica craxiana è questa: una politica liberista in ossequio alla congiuntura internazionale e ai dettami del grande capitale combinata con un clientelismo dissennato per reggere in qualche modo una situazione nazionale che altrimenti avrebbe potuto esplodere. Gli anni 70, del resto, sono appena conclusi, la sconfitta operaia alla Fiat ha chiuso un'epoca ma il movimento operaio non è ancora del tutto spossato e il Pci supera ancora il 30%.
Eppure Craxi era stato eletto al Midas di Roma, nel 1976, come un segretario "di transizione" con il compito di portare il Psi fuori dalla crisi e dalla sconfitta elettorale in cui lo lasciava De Martino. Appoggiato da Giacomo Mancini, ottenne il consenso anche delle altre correnti ma ben presto si affermò come un punto di equilibrio saldo e convincente. Non per niente era il "pupillo" di Pietro Nenni.
La stella polare inizia subito a essere semplice quanto ardita: conquistare per il Psi una posizione originale e autonoma rispetto ai due partiti che insieme sommavano oltre il 70% del voto popolare. E' in questa chiave che produce forse la sua iniziativa migliore, la linea per la trattativa durante il rapimento Moro contro la linea dura espressa da Dc e Pci e che sarà sconfitta drammaticamente. Un profilo liberale, attento ai diritti civili la cui strumentalità sarà smascherata platealmente solo un decennio dopo quando sarà proprio Craxi a firmare insieme a Rosa Russo Jervolino la prima legge proibizionista che penalizza l'uso di cannabis e contribuisce a criminalizzare la tossicodipendenza.
Anche il presunto autonomismo del Psi è strumentale. Craxi vuole guadagnare spazi di manovra, e di consenso, sia a destra che a sinistra, per diventare un perno della politica italiana e guadagnare così il potere. Nella fase di crisi latente e irreversibile del Pci l'obiettivo può essere guadagnato solo alleandosi con la Dc verso la quale si rivendica l'alternanza che consiste nella sostituzione della sempiterna guida democristiana dei governi con una direzione socialista.
Nel 1983 il Psi sale all'11,4% dei voti (aveva il 9,8) il Pci scende sotto la soglia del 30% e la Dc si attesta al 33%. Craxi chiede e ottiene la presidenza del Consiglio. E' il primo socialista - da questo punto di vista è ovviamente un fatto storico - che consegue il risultato. Forma un governo "pentapartito", formato da Dc, Psi, Pri, Psdi e Pli e arriva fino alle elezioni del 1987 dove il Psi sale ancora superando il 14%.
Quattro anni di governo, tra i più lunghi della storia italiana. Che ne è stato davvero dell'Italia? Dopo la crisi degli anni 70 e la sconfitta operaia, gli anni 80 vedono una ripresa dei margini di profitto e di accumulazione capitalistica. Craxi accompagna questa dinamica con una politica di contenimento dell'inflazione che viene ridotta drasticamente. Asse di questa politica è il taglio di quattro punti della scala mobile nel febbraio 1984. E' un passaggio cruciale e drammatico, la sconfitta simbolica del 1980 ai cancelli della Fiat viene tradotta sul piano politico e Craxi e la componente riformista della Cgil - non solo la componente socialista guidata da Ottaviano del Turco ma anche quella espressa dal segretario generale Lama - ne costituiscono l'agente determinante. Una politica che può essere ben riassunta nel motto che coniò uno dei più fedeli craxiani dell'epoca, Gianni De Michelis quando si rivolse ai giovani italiani con un bel "arrangiatevi". Contestualmente, come abbiamo visto, la politica del debito pubblico viene utilizzata per compensare, con il vantaggio del controllo centrale, del clientelismo, dell'assistenza alle imprese, dell'elargizione e della corruzione, gli squilibri sociali che in Italia non fanno altro che crescere.
La spregiudicatezza la si legge anche nella stipula del nuovo Concordato con il Vaticano, riattualizzazione dei Patti lateranensi di Benito Mussolini. Il leader laico e socialista, espressione di una storia anticlericale, concede al Vaticano privilegi come l'8 per mille, finanziamenti alla Chiesa cattolica e l'estensione dell'insegnamento della religione cattolica, ad esempio nelle scuole materne, mitigato dalla facoltatività.
Per quanto riguarda la politica estera, vale la pena riportare una frase di Zbigniew Brzezinski, ex Segretario di Stato di Carter, grande conoscitore della schacchiera mondiale che disse di Craxi: «Senza i missili Pershing e Cruise in Europa la guerra fredda non sarebbe stata vinta; senza la decisione di installarli in Italia, quei missili in Europa non ci sarebbero stati; senza il PSI di Craxi la decisione dell’Italia non sarebbe stata presa. Il Partito Socialista italiano è stato dunque un protagonista piccolo, ma assolutamente determinante, in un momento decisivo». Contro i missili Cruise si organizzò un grande movimento per la pace che manifestò in tutta Italia e in particolare a Comiso. Craxi ne era l'avversario principale.
Il cuore della politica estera socialista degli anni 80, ben rappresentato da Gianni De Michelis, è tutto in questa frase: un atlantismo risoluto, fermo sia pure temperato da una strategia dell'attenzione verso il mondo arabo che voleva per l'Italia un ruolo più protagonista nel Mediterraneo. Si pensi all'importanza data alla Cooperazione internazionale - centro di inchieste giudiziarie - all'importanza delle relazioni con Gheddafi, con la Somalia di Siad Barre e con l'Olp di Arafat. E' in questo contesto che si inserisce il caso Sigonella. Una volta attivata la trattativa con i rapitori della Achille Lauro che si consegnano alle autorità egiziane per essere trasportati in Tunisia e dopo il dirottamento in volo a opera dei caccia americani che costringono l'aereo egiziano ad atterrare a Sigonella, si instaura un braccio di ferro tra Italia e Usa sulla sovranità nazionale e sulla legittima competenza a trattenere e giudicare i rapitori (anche se in realtà gli Usa vogliono mettere le mani sul mediatore palestinese Abu Abbas). Craxi regge l'urto con Washington che è costretta a cedere. Riceve il plauso del Pci e rompe con l'ala filoisraeliana del governo rappresentata allora dal repubblicano Spadolini. Conferisce quindi alla politica estera italiana, rappresentata in quel momento da Giulio Andreotti, quel tratto di autonomia mediterranea che gli Usa sono costretti ad accettare fino alla normalizzazione che avverrà negli anni 90. Ma ovviamente le relazioni non vengono incrinate. Nel giro di un mese Reagan inviterà di nuovo Craxi alla Casa Bianca e gli Usa saranno costretti ad ammettere di avere un po' esagerato. Craxi ottiene un successo personale e politico ma certamente non muta il segno della politica estera italiana.
Con la fine del suo governo, nel 1987, dovuto allo scontro con Ciriaco De Mita, esponente della sinistra Dc, Craxi decide di imbarcarsi in un'alleanza organica con le componenti più moderate della Democrazia Cristiana capitanate da Andreotti e Forlani. Insieme a loro forma il Caf, fa nascere due governi Andreotti, liquida De Mita, chiude qualsiasi porta al Pci. Di fatto si isola e la marcescenza della situazione italiana lo travolge in poco tempo. Con il Caf si consegnerà alla vicenda Mani Pulite, alla sconfitta subita nel referendum sulla preferenza unica e poi alle inchieste giudiziarie che lo travolgeranno insieme al Psi. Ma non sono le inchieste a batterlo davvero. E' una politica di manovra e tatticismi votata al potere politico che snatura per sempre l'identità dei socialisti italiani facendoli alleare con la peggior conservazione presente in Italia, il Caf appunto. E' un'idea della politica di potenza, mediatica, di decisionismo apparente - quante mediazioni con molteplici correnti sono state fatte in quegli anni? - e di una modernizzazione inesistente che porta l'Italia alle soglie degli anni 90 al limite del collasso finanziario e monetario e che induce una parte consistente della classe dirigente di questo paese ad appoggiare le inchieste della magistratura per liquidare un ceto politico fallimentare. Quando i craxiani di vario tipo parlano di "complotti" alle loro spalle hanno in parte ragione. Non perché non esistano le malefatte - le condanne definitive sono molte e confermate - ma perché a un certo punto si rompe un patto implicito, e di potere, che aveva visto nell'ipotesi modernista di metà anni 80 un possibile punto di svolta nella "palude italiana" ma che però non porta a risultati concreti per le esigenze di un capitalismo nazionale alle prese con l'unificazione europea, il mercato unico e quindi una concorrenza molto più agguerrita in cui l'agilità e la prontezza dello Stato sarebbero stati elementi decisivi.
Craxi è soprattutto questo, le inchieste sono solo un'appendice che non spiega nulla della storia degli anni 80, del suo farsi puntello di un'offensiva antioperaia decisa e spietata - i cui epigoni tristi sono i vari Brunetta e Sacconi - del suo tentativo di tirarsi fuori dalla storia passata - è il primo ad abolire la falce e martello dal simbolo - del suo portare alla disfatta un partito comunque rilevante nella società italiana. Accompagna il decadimento italiano, il suo spappolamento, l'incrinatura della solidarietà emersa dalle fatiche e dai dolori della guerra, afferma un'astratta modernità che non vuol dire altro il potere del più forte. Prepara il terreno al berlusconismo e ne costituisce quindi, come giustamente rivendica ancora la figlia, un caposaldo.
E fanno pena quelli nel Pd - ce ne sono tanti, inutile fare i nomi - che oggi ne parlano con lo sguardo di chi avrebbe voluto essere come lui e non poté, di chi quel percorso lo avrebbe imboccato volentieri dieci anni prima di Occhetto e però non poteva certo rinunciare a quel 30% di voti che guardavano con fiducia e speranza al Pci e costituiva la propria rendita personale. Di chi una via a Craxi la dedicherebbe pure, sperando di guadagnare sul proprio nome, un giorno futuro, almeno una stradina stretta.

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